Un raro caso di cardiomiopatia non-amiloidotica da depositi di catene leggere con pattern aritmogeno alla risonanza magnetica

Raimondo Pittorru1, Simone Ungaro1, Antonella Capomolla1, Vittorio Zuccarelli1, Federico Migliore1, Giuseppe Tarantini1, Annalisa Angelini1, Sabino Iliceto1, Manuel De Lazzari1, Martina Perazzolo Marra1

1. Dipartimento di Scienze Cardio-Toraco-Vascolari e Sanità Pubblica, Università degli Studi di Padova, Padova, Italia

ABSTRACT
La malattia da deposito di catene leggere (LCDD) è una rara discrasia plasmacellulare caratterizzata da una deposizione di catene leggere (LC) mal ripiegate, che presenta diverse differenze con l’amiloidosi AL1,2. Il coinvolgimento cardiaco è considerato un evento raro oltre che tardivo nella storia naturale della patologia3, e potrebbe associarsi ad un’aumentata instabilità elettrica. La risonanza magnetica cardiaca, l’esame istopatologico con caratterizzazione tissutale e la microscopia elettronica sono elementi diagnostici essenziali per giungere ad una diagnosi corretta.

CASO CLINICO
Riportiamo il caso di un uomo di 52 anni affetto da gammopatia monoclonale IgGk + k e sindrome nefrosica. Tale patologia era stata diagnosticata mediante biopsia del midollo osseo, che mostrava  una presenza di plasmacellule del 60%, mentre la biopsia renale, attraverso tecniche di immunofluorescenza e microscopia ottica ed elettronica, confermava la presenza di malattia da deposito di catene leggere. Alla biopsia si riscontravano reperti caratteristici della malattia (Figure 2A e 2B); il microscopio elettronico mostrava un particolare materiale granulare, non fibrillare, elettrondenso lungo la membrana basale dei capillari glomerulari entro i nodulo mesangiali e lungo la membrana basale tubulare (Figure 2C, 2D).
Il paziente, trattato inizialmente con protocollo chemioterapico a base di Bortezomib-desametasone, veniva poi sottoposto a trapianto autologo di cellule staminali con remissione clinica e laboratoristica completa della patologia, renale ed ematologica.
In seguito, tuttavia, si assisteva ad una ripresa di malattia testimoniata da un repentino aumento sierico delle IgG/k e delle catene leggere k, pertanto veniva introdotta la Lenalidomide. Due mesi dopo la modifica terapeutica, il paziente accedeva in Pronto Soccorso per comparsa di un episodio sincopale a riposo. Durante il ricovero, i valori degli indici di miocardiocitolisi registrati risultavano negativi, mentre al monitoraggio elettrocardiografico, si riscontravano onde T negative in sede infero-laterale in presenza di un bigeminismo ventricolare alternato a episodi ditorsioni di punta innescati dal fenomeno “R su T” (Figura 1A).
Nonostante la frazione di eiezione conservata, si proponeva approfondimento diagnostico mediante coronarografia con riscontro di ponte intramiocardico lungo il decorso dell’arteria coronaria discendente anteriore. Si procedeva quindi all’esecuzione di una risonanza magnetica cardiaca (RM), che mostrava un ventricolo sinistro non ipertrofico e con frazione di eiezione preservata, nonostante la presenza di ipocinesia regionale. Particolare attenzione veniva indirizzata nei confronti del late-gadolinium enhancement e nella valutazione dell’edema intramiocardico. L’edema, infatti, era localizzato in corrispondenza della parete subepicardica infero-laterale del ventricolo sinistro e associato a una stria edematosa a livello medio-settale (Figure da 1C a 1F). Alle sequenze post-contrastografiche, si rilevava LGE nelle medesime sedi con pattern ring-like (Figure da 1G a 1L) di natura non ischemica e non-amiloidotica.
Sulla scorta dei reperti della RM, il paziente veniva sottoposto a biopsia endomiocardica: i preparati colorati  con ematossilina-eosina mostravano reperti aspecifici, tra cui fibrosi e necrosi miocardica focale, in assenza di infiltrato infiammatorio (Figura 2 E); le colorazioni specifiche per amiloidosi, ossia Rosso congo (Figura 2F) e Tioflavina T (Figura 2G) risultavano altresì negative.
Risultava, invece, dirimente l’analisi al microscopio elettronico che documentava materiale elettrondenso granulare a livello interstiziale, senza dimostrazione  di alcun pattern o caratteristica tipica di patologia amiloidotica cardiaca (tra cui foglietti-beta fibrillari; Figura 2H).
Durante la degenza, si registravano ripetuti episodi di tachicardia ventricolare non sostenuta (Figura 1B) per i quali, anche in considerazione delle evidenze strumentali, il paziente veniva sottoposto a impianto di ICD transvenoso.
Veniva quindi dimesso con una diagnosi finale di “LCDD (κ) con coinvolgimento cardiaco”, e prosecuzione del regime chemioterapico con la lenalidomide.
Dopo 3 mesi dall’impianto dell’ICD, a causa di endocardite su elettrocatetere, si procedeva all’estrazione transvenosa e all’impianto di un nuovo dispositivo, previa ripetizione di RM. Tale esame, rispetto al precedente, rivelava una significativa riduzione di edema miocardico e persistenza di LGE.

Figura 1. Modificata da Pittorru et al.* Aritmie ventricolari e pattern alla risonanza magnetica cardiaca in corso di cardiomiopatia da catene leggere non-amiloidotica. Dopo l’episodio sincopale, l’ECG ha mostrato BEV ripetuti ed episodi di torsione di punta innescati da R-su-T (A). Durante la degenza, al monitoraggio telemetrico, riscontro di ripetute TVNS a morfologia di blocco di branca destra (B). Alla RMC effettuata in acuto (da C ad F), evidenza di edema miocardico in corrispondenza della parete laterale del ventricolo sinistro nelle sequenze T2 pesate con pattern epicardico (C, asse corto; D, asse lungo), la freccia bianca indica la stria di edema a livello medio-settale. Nelle sequenze post-contrasto (E ed F), si nota LGE in omosede (frecce vuote) con accentuazione a livello del setto. Alla RMC effettuata a distanza di 3 mesi (da G a L), si nota una netta riduzione dell’edema (G e H) in presenza di LGE persistente. TVNS tachicardia ventricolare non sostenuta; RMC risonanza magnetica cardiaca; LGE late gadolinium enhancement. *De Lazzari M, Fedrigo M, Migliore F, et al. Nonamyloidotic Light Chain Cardiomyopathy: The Arrhythmogenic Magnetic Resonance Pattern. Circulation. 2016;133(14):1421-1423.

DISCUSSIONE
La LCDD è una rara discrasia delle plasmacellule caratterizzata da una deposizione non-amiloidotica di catene leggere (LC) malripiegate in organi e tessuti1,2. Il coinvolgimento cardiaco è considerato un evento raro oltre che tardivo nella storia naturale della patologia3.  Proprio per questo motivo, il pattern di deposizione non fibrillare delle catene leggere nel miocardio è stato evidenziato solo in poche biopsie endomiocardiche. Le aritmie ventricolari life-threatening e gli ecocardiogrammi non-diagnostici rappresentano i  due hallmarks di tale coinvolgimento3,4,5.
In letteratura esistono poche evidenze in merito al coinvolgimento cardiaco in presenza di LCDD, verosimilmente a causa della rarità della patologia, per tale motivo non si dispone di dati in merito all’imaging in vivo di tale condizione. In merito al caso, la presenza di edema alla prima RM identifica la deposizione subacuta interstiziale di LC, che, considerata la loro intrinseca proteotossicità, sono alla base dell’instabilità elettrica e del burden aritmico. Inoltre, il pattern LGE che risparmia l’endocardio confermerebbe le evidenze in merito agli studi autoptici relativi a tale patologia3.

Figura 2. Modificata da Pittorru et al.* Biopsia renale (da A a D) ed endomiocardica (da E ad H) della malattia da depositi di catene leggere non-amiloidotica. Coinvolgimento renale (da A a D): il preparato positivo all’acido periodico di Schiff rivela la deposizione di LC nel mesangio (A, ×40); la colorazione tricromica di Masson mostra ipercellularità endocapillare (B, ×40); la microscopia elettronica identifica depositi glomerulari elettrondensi nel mesangio (C, ×7000) e nei tubuli sub-epiteliali (D, ×7000). Coinvolgimento cardiaco ( da E ad H): con ematossilina-eosina viene mostrato un pattern aspecifico di interessamento miocardico caratterizzato da necrosi focale in assenza di infiltrato infiammatorio e fibrosi (E, ×20); negative la colorazione Rosso Congo (luce polarizzata; F, ×20) e tiofavina T (fluorescenza; G, X20); la microscopia elettronica rivela materiale granulare elettrondenso (H,×7000) non conforme alle caratteristiche dell’amiloide e compatibile con depositi di catene leggere k. LC catene leggere; BEM: biopsia endomiocardica. *De Lazzari M, Fedrigo M, Migliore F, et al. Nonamyloidotic Light Chain Cardiomyopathy: The Arrhythmogenic Magnetic Resonance Pattern. Circulation. 2016;133(14):1421-1423.

CONCLUSIONI
Il nostro gruppo, per la prima volta, ha descritto un pattern in vivo del coinvolgimento cardiaco in corso di LCDD mediante la caratterizzazione tissutale ottenuta attraverso risonanza magnetica cardiaca, preparati istologici  e microscopia elettronica. Abbiamo dimostrato che la LCDD ha, quindi, una distribuzione ed un’organizzazione ultrastrutturale diverse rispetto alle caratteristiche tissutali evidenziabili in corso di amiloidosi AL, e si associa ad una importante instabilità elettrica.

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5. Manuel De Lazzari, Marny Fedrigo, Federico Migliore, Andrea Cianci, Luisa Cacciavillani, Giuseppe Tarantini, Benedetta Giorgi, Sabino Iliceto, Gaetano Thiene, Marialuisa Valente, Annalisa Angelini, Fausto Adami, Martina Perazzolo Marra. Nonamyloidotic Light Chain Cardiomyopathy: The Arrhythmogenic Magnetic Resonance Pattern. Circulation. 2016. 10.1161/CIRCULATIONAHA.115.019895

Strategia interventistica vs. approccio conservativo nei pazienti con dissezione coronarica spontanea: dal registro DISCO

Stefano Benenati1*, MD, Federico Giacobbe2*, MD, Antonio Zingarelli3, MD, Fernando Macaya4, MD, PhD, Carloalberto Biolè5, MD, Angelica Rossi6, MD, Marco Pavani7, MD, Giorgio Quadri8, MD, Umberto Barbero9, MD, Andrea Erriquez10, MD, Tiziana Aranzulla8, MD, Chiara Cavallino11, MD, Dario Buccheri12, MD, Cristina Rolfo7, MD, Giuseppe Patti13, MD, PhD, Nieves Gonzalo4, MD, PhD, Alessandra Chinaglia5, MD Giuseppe Musumeci7, MD, Javier Escaned4, MD, PhD

Ferdinando Varbella7, MD, Enrico Cerrato7‡, MD, PhD, Italo Porto1,3‡, MD, PhD; DISCO Collaboratorsx

Affiliazioni

1. Dipartimento di Medicina Interna e Specialità Mediche (Di.M.I.), Università di Genova, Genova, Italia

2. Dipartimento di Cardiologia,AOU Citta` della Salute e della Scienza di Torino, Torino;

3. Unità di Malattie Cardiovascolari, IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, IRCCS Italian Cardiology Network, Genova, Italy

4. Hospital Clínico San Carlos, IdiSSC, Universidad Complutense de Madrid, Madrid, Spain

5. Ospedale Universitario San Luigi Gonzaga, Orbassano, Torino,

6. Divisione di Cardiologia, Azienda Ospedaliera Brotzu, Cagliari

7. Unità di Cardiologia Interventistica, Ospedale Universitario San Luigi Gonzaga, Ospedale degli Infermi di Rivoli e Orbassano, Rivoli, Torino

8. Ordine Ospedale Mauriziano Umberto I, Torino

9. Ospedale Maggiore Ss. Annunziata – Savigliano (CN)

10. Università di Ferrara, Ferrara

11. Ospedale Sant’Andrea, Vercelli

12. Ospedale S. Antonio Abate Hospital, Trapani

13. Università Piemonte Orientale, Dipartimento di malattie Toraciche e Vascolari, Ospedale Maggiore della Carità, Novara

Abstract

Il beneficio dell’angioplastica coronarica percutanea rispetto alla terapia medica nel trattamento delle dissezioni coronariche spontanee è incerto. Lo scopo del presente studio è stato quello di comparare gli outcomes dei pazienti trattati con angioplastica rispetto a terapia medica e di individuare i predittori del trattamento invasivo. Abbiamo condotto una sottoanalisi su 369 pazienti arruolati nel registro DIssezioni Spontanee COronariche (DISCO IT/SPA) dal 2009 al 2020, di cui 340 trattati con terapia medica e 129 con angioplastica. La presentazione con infarto STEMI, il coinvolgimento di un segmento coronarico prossimale, un flusso TIMI < 3 e l’incremento progressivo della stenosi coronarica causata dalla dissezione sono risultati predittori indipendenti di un approccio interventistico. Al contrario, il sottotipo angiografico 2B prediceva indipendentemente l’impiego di una gestione medica. Non c’erano differenze tra le due popolazioni né rispetto agli outcomes intraospedalieri che ad un composito di morte per tutte le cause, infarto miocardico non fatale e rivascolarizzazione coronarica ripetuta a due anni.

In conclusione, nei pazienti con dissezione coronarica spontanea, angioplastica e terapia medica si associano a simili outcomes clinici a breve e medio termine, sebbene l’angioplastica venga usualmente impiegata in pazienti a più alto rischio.

Commento

Le dissezioni coronariche spontanee rappresentano una eziologia rara di coronaropatia, usualmente ad esordio acuto. Sono caratterizzate dalla formazione di un ematoma di parete responsabile della compressione luminale, che spesso si associa ad una discontinuità della tonaca intima. Per le loro peculiari caratteristiche, le dissezioni spontanee pongono singolari problematiche tecniche nel contesto dell’angioplastica percutanea. Tra le varie, queste includono il rischio di propagazione dell’ematoma, di wiring del falso lume e di malapposizione tardiva dello stent. L’angioplastica percutanea, normalmente terapia di scelta delle sindromi coronariche acute, si associa pertanto a particolari rischi nei pazienti affetti da dissezione coronarica spontanea. Storicamente, questo ha stimolato una sempre maggiore propensione alla gestione conservativa delle dissezioni spontanee, anche alla luce dell’elevato tasso di guarigione spontanea delle dissezioni nel lungo termine.

Il registro DIssezioni Spontanee COronariche (DISCO IT/SPA) è un registro multicentrico condotto il 26 centri Italiani e Spagnoli che, sotto la supervisione del Dott. Enrico Cerrato (Torino), ha avuto il merito di raccogliere una delle più ampie casistiche di dissezioni coronariche spontanee al mondo. Su questa popolazione, è stata condotta una sottoanalisi volta a comparare le caratteristiche e gli outcomes clinici dei pazienti con dissezioni spontanee trattati con approccio invasivo o conservativo, e a verificare i predittori di un approccio invasivo.

In totale, sono stati selezionati 369 pazienti arruolati nel registro DISCO da Gennaio 2009 a Dicembre 2020, di cui 129 trattati con angioplastica e 240 con terapia medica (Figura 1). I pazienti trattati con angioplastica erano più frequentemente affetti da infarto STEMI ed arresto cardiaco, inoltre il coinvolgimento di un segmento coronarico prossimale ed un flusso TIMI subottimale erano più frequenti in questo gruppo (Tabelle 1 e 2). La tabella 3 mostra i predittori dell’approccio interventistico con i relativi odds ratios (OR) e intervalli di confidenza al 95% (95% CI). La presentazione con infarto STEMI, il coinvolgimento di un segmento coronarico prossimale, un flusso TIMI < 3 e l’incremento progressivo della stenosi coronarica causata dalla dissezione sono risultati predittori indipendenti di un approccio interventistico. Al contrario, il sottotipo angiografico 2B prediceva indipendentemente l’impiego di una gestione medica. Non c’erano differenze tra le due popolazioni né rispetto agli outcomes intraospedalieri (Tabella 4) che ad un composito di morte per tutte le cause, infarto miocardico non fatale e rivascolarizzazione coronarica ripetuta a due anni (Figura 2).

Pur limitati dalla natura retrospettiva dello studio, i risultati di questa sottoanalisi indicano che l’angioplastica, seppure impiegata in pazienti a rischio più alto, esita in outcomes comparabili a quelli della terapia medica, rassicurando sul suo utilizzo in specifiche circostanze (es. dissezione spontanea che causa STEMI). Il sottostudio DISCO rappresenta il più ampio attualmente pubblicato a fornire un confronto diretto tra terapia medica e approccio invasivo in una popolazione con dissezione coronarica spontanea.

https://www.ahajournals.org/doi/10.1161/CIRCINTERVENTIONS.122.012780?url_ver=Z39.88-2003&rfr_id=ori:rid:crossref.org&rfr_dat=cr_pub%20%200pubmed

Pseudoaneurisma infettivo: quando un BAV può nascondere sorprese

Dario Fabiani1, Andrea Vergara1, Fabrizia Terracciano1, Antonio De Pasquale1, Paolo Calabrò1 

1. Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, A.O.R.N.  Sant’Anna e San Sebastiano, Caserta

ABSTRACT
L’endocardite infettiva (EI) su protesi valvolare costituisce la forma più severa di EI e si verifica nell’1-6% dei pazienti portatori di protesi valvolare (1). Rappresenta il 10-30% di tutti i casi di EI e colpisce in egual misura sia le protesi meccaniche che biologiche, provocando solitamente la comparsa di insufficienza protesica, e più raramente anche all’ostruzione di protesi. La conoscenza delle indicazioni all’intervento cardochirurgico, il timing dell’intervento e il ruolo dell’ “Endocarditis Team”, risultano fondamentali ai fini terapeutici. Riportiamo il caso clinico di un paziente di 75 anni in cui è stato riscontrato un blocco atrioventricolare di III grado secondario a un’EI della protesi biologica aortica con estensione perivalvolare. Il corretto inquadramento anamnestico-laboratoristico associato all’accuratezza diagnostica delle tecniche di imaging (ecocardiogramma transesofageo, TEE), sono risultati fondamentali ai fini prognostici.

CASO CLINICO
Presentiamo il caso clinico di un uomo di 75 anni, affetto da ipertensione arteriosa sistemica, dislipidemia, diabete mellito di tipo 2, portatore di protesi biologica aortica da circa 7 anni. Il paziente in questione si è presentato al nostro Dipartimento di Emergenza e Accettazione riferendo storia di febbricola intermittente (T 37.5°C) da qualche settimana, associata ad astenia marcata e bradicardia. A domicilio era stato trattato empiricamente con farmaci antibiotici e anti-infiammatori senza ottenere una franca risoluzione della sintomatologia. Al momento della nostra valutazione, le condizioni generali del paziente erano scadute.

Figura 1. BAV di III grado

Obiettivamente presentava ipotensione (PA 90/50 mmHg), bradicardia marcata (Fc 35 bpm), SpO2 90% in aria ambiente e temperatura corporea pari a 38°C. All’ECG di superficie a 12 derivazioni si diagnosticava un BAV di III grado a frequenza ventricolare di 35 bpm (Figura 1). Dopo aver escluso disionie e altre cause reversibili di blocco atrio-ventricolare, veniva posizionato un PMK temporaneo per via venosa transfemorale con stabilizzazione del quadro clinico-emodinamico. Gli esami di laboratorio eseguiti in urgenza, mostravano una leucocitosi neutrofila (GB 19.000/mm3 con 90% di neutrofili) associata ad anemia (Hg 8.6 g/dL) e ad incremento degli indici di flogosi (VES, PCR e pro calcitonina).  Considerando la storia anamnestica del paziente e gli esami di laboratorio, entrambi suggestivi di endocardite infettiva, veniva posta indicazione all’ esecuzione di TEE a completamento diagnostico.

Figura 2. Pseudoaneurisma periprotesico aortico con flusso al color-Doppler al suo interno.

Si evidenziava, pertanto, la presenza di una cavità a contenuto anecogeno a sede periprotesica, con estensione alla fibrosa intervalvolare mitro-aortica, fistolizzata nel tratto di efflusso del ventricolo sinistro con presenza di flusso color-Doppler al suo interno (Figura 2 e Figura 3). Il reperto ecocardiografico descritto era quindi compatibile con la diagnosi di pseudoaneurisma periprotesico aortico. Si associava a questo, l’evidenza di deiscenza totale ed instabilità della protesi biologica aortica.

Figura 3. Pseudoaneurisma periprotesico aortico comunicante con il ventricolo sinistro.

Il paziente veniva, quindi, trasferito presso la nostra terapia intensiva cardiologica dove si praticavano emocolture seriate e veniva impostata terapia antibiotica empirica ad ampio spettro. In terza giornata di degenza, il laboratorio comunicava il risultato dell’esame colturale, con l’isolamento di Staphilococco Aureo meticillino-resistente (MRSA) per cui veniva posta diagnosi di endocardite infettiva in base ai criteri di Duke modificati (1). Il caso veniva sottoposto a discussione da parte dell’ “Endocarditis Team”, che poneva indicazione ad effettuare l’intervento cardochirurgico urgente in accordo con le ultime linee guida ESC in tema di EI (1). Il paziente veniva quindi sottoposto, con successo, ad intervento cardochirurgico di ricostruzione della fibrosi mitro-aortica con patch e sostituzione della bioprotesi aortica con nuova protesi. Il decorso post-operatorio è stato regolare. La terapia antibiotica endovena è stata proseguita per ulteriori 4 settimane. A negativizzazione ottenuta degli esami colturali, il paziente è stato sottoposto ad impianto di pace-maker definitivo. Al follow-up a 6 mesi, il paziente si presentava apiretico e in buone condizioni cliniche generali.

DISCUSSIONE
Un’EI viene definita “non controllata” nel caso di persistenza dell’agente patogeno nonostante antibioticoterapia o, in alternativa, in presenza di un’infezione ad estensione locale perivalvolare. Le infezioni non controllate rappresentano una delle complicanze più temibili dell’EI e generalmente sono causate da microrganismi resistenti alla terapia antibiotica oppure particolarmente virulenti. La formazione di ascessi, pseudoaneurismi e fistole, rappresenta la causa più comune di EI “non controllata” (1). Essi sono associati ad una prognosi sfavorevole e il loro riscontro costituisce un’indicazione ad un intervento cardochirurgico urgente.
La formazione di ascessi perivalvolari è comune nei portatori di protesi valvolari aortiche (56-100%) e la localizzazione più frequente è a livello della fibrosa intervalvolare mitro-aortica (2).  Nonostante i tassi di ricorso alla chirurgia in questa popolazione siano elevati (87%), la mortalità intraospedaliera rimane alta (41%). Altre complicanze correlate ad una significativa estensione locale dell’infezione, soprattutto a livello aortico, sono l’insorgenza di difetti del setto interventricolare, di blocchi atrioventricolari e, più raramente, le sindromi coronariche acute (3). La persistenza di febbre di origine sconosciuta associata allo sviluppo di blocchi atrioventricolari devono indurre a sospettare un’ EI con insorgenza di complicanze periprotesiche, soprattutto se l’infezione è localizzata a livello aortico. Dopo la diagnosi, in caso di iniziale strategia conservativa, è importante l’esecuzione di controlli TEE seriati, eseguiti in corso di terapia antibiotica mirata, specialmente nei casi di EI su protesi valvolare aortica. Tuttavia ascessi di piccole dimensioni, soprattutto se localizzati in sede mitralica con coesistente calcificazione dell’anulus, posso risultare misdiagnosticati con tale metodica. Il ricorso all’imaging multimodale, mediante l’integrazione di vantaggi e svantaggi di varie metodiche come TEE, TAC cardiaca e PET/TC, consente una migliore accuratezza diagnostica (4).

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  4.  Thuny F, Gaubert JY, Jacquier A, Tessonnier L, Cammilleri S, Raoult D, Habib G. Imaging investigations in infective endocarditis: current approach and perspectives. Arch Cardiovasc Dis 2013;106:52–62.

Staged protected percutaneous coronary intervention with Impella CP® device in patient with recent acute coronary syndrome, arrhythmic storm, and severe left ventricular dysfunction: sometimes waiting is better!

Domenico Simone Castiello1, Domenico Angellotti1, Fiorenzo Simonetti1, Andrea Mariani1, Rachele Manzo1, Maddalena Immobile Molaro1, Dalila Nappa1

1Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate, Università Federico II di Napoli

ABSTRACT
Negli ultimi anni si è assistito ad un significativo aumento dell’uso dei dispositivi percutanei di assistenza ventricolare (pVADs, Percutaneous Ventricular Assist Devices) come supporto emodinamico nello shock cardiogeno e durante le procedure interventistiche, incluse le procedure di angioplastica coronarica percutanea (PCI, Percutaneous Coronary Intervention) ad alto rischio, che, supportata dai pVADs, viene attualmente definita “Protected” PCI. In questo report presentiamo il caso clinico di un paziente di 67 anni con diagnosi di sindrome coronarica acuta con sopraslivellamento del tratto ST (STE-ACS, ST-elevation Acute Coronary Syndrome) che, data la complessità anaatomica coronarica, la disfunzione ventricolare sinistra, le severe co-morbidità ed il burden aritmico, in seguito alla PCI primaria in urgenza, veniva candidato a staged Protected PCI con il dispositivo Impella CP® per il trattamento di una stenosi sub-occlusiva calcifica di Tronco Comune non protetto dell’Arteria Coronaria Sinistra.

CASO CLINICO
Presentiamo il caso clinico di un paziente di 67 anni con i seguenti fattori di rischio cardiovascolare: ipertensione arteriosa, diabete mellito di tipo II in trattamento insulinico dislipidemia e pregressa abitudine tabagica. In anamnesi, inoltre, il paziente presenta malattia renale cronica (CKD, Chronic Kidney Disease) in trattamento dialitico dal 2008 e sottoposta a trapianto renale nel 2011, ipotiroidismo e BPCO. Il paziente si reca in pronto soccorso per l’insorgenza, da circa due ore, di dolore epigastrico oppressivo, palpitazioni e sudorazione algica. Viene quindi eseguito un elettrocardiogramma che evidenzia un sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni AVR e V1 con associato sottoslivellamento diffuso (in 8 derivazioni). Viene quindi posta diagnosi di infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI, ST-elevation Myocardial Infarction) dato che un simile quadro elettrocardiografico va considerato come uno STEMI-equivalente [1].  Per tale motivo il paziente viene trasferito presso il nostro centro Hub per essere sottoposto ad angiografia coronarica in urgenza.
Il quadro angiografico mostra una malattia aterosclerotica coronarica (CAD, Coronary Artery Disease) multivasale e complessa: si evidenzia infatti un’occlusione cronica totale (CTO, Chronic Total Occlusion) del Ramo Circonflesso dell’Arteria Coronaria Sinistra, ben riabitata per via etero-coronarica dall’Arteria Coronaria Destra che appare ateromasica, esente da stenosi angiograficamente significative. Si riscontra altresì una stenosi subocclusiva, trombotica al tratto prossimale e medio del Primo Ramo Diagonale dell’Arteria Coronaria Sinistra e soprattutto una stenosi subocclusiva e calcifica al tratto medio del Tronco Comune dell’Arteria Coronaria Sinistra coinvolgente l’ostio del Ramo Interventricolare Anteriore (Figura 1).

Figura 1 – Angiografia coronarica: malattia aterosclerotica coronarica multivasale e complessa.
A) CTO del Ramo Circonflesso con buona riabitazione per via etero-coronarica dall’Arteria Coronaria Destra. B) Stenosi subocclusiva e calcifica al tratto medio-distale del Tronco Comune dell’Arteria Coronaria Sinistra coinvolgente l’ostio del Ramo Interventricolare Anteriore.

Si decide di procedere a PCI primaria con impianto di due stent medicati (DES, Drug-Eluting Stent) in overlap al tratto prossimale e medio del Primo Ramo Diagonale ottenendo un ottimo risultato angiografico finale con flusso anterogrado coronarico TIMI 3 (Figura 2).

Figura 2 – PCI primaria di Primo Ramo Diagonale dell’Arteria Coronaria Sinistra.
A) Stenosi subocclusiva, trombotica al tratto prossimale e medio del Primo Ramo Diagonale dell’Arteria Coronaria Sinistra. B) PCI con impianto di due DES al tratto prossimale e medio del Primo Ramo Diagonale con ottimo risultato angiografico finale.

Il paziente si presentava in condizioni di stabilità emodinamica, per cui si decideva di discutere successivamente in Heart Team la strategia ottimale di rivascolarizzazione per il Tronco Comune non protetto. In UTIC il paziente veniva sottoposto ad ecocolorDoppler cardiaco transtoracico che evidenziava una severa disfunzione ventricolare sinistra con acinesia dell’apice in toto ed ipocinesia diffusa determinanti una Frazione di Eiezione (EF, Ejection Fraction) del 30%. Il giorno seguente il paziente sviluppava fibrillazione atriale ad alta risposta ventricolare determinante un quadro di instabilità emodinamica, trattato con cardioversione elettrica ed infusione endovenosa di amiodarone. Poche ore dopo si assisteva all’insorgenza di un quadro di Storm Aritmico, con sei episodi di tachicardia ventricolare sostenuta che venivano trattati con infusione endovenosa di amiodarone, metoprololo e lidocaina, dopo un tentativo infruttuoso di cardioversione elettrica, ottenendo il ripristino del ritmo sinusale (Figura 3).

Figura 3 – Stato di Storm Aritmico. A) Episodio di Fibrillazione Atriale ad alta risposta ventricolare. B) Episodio di Tachicardia Ventricolare.

In Heart Team si decretava che il paziente non era candidabile alla rivascolarizzazione chirurgica, data la severa disfunzione ventricolare sinistra, l’elevato burden aritmico, la lunga storia di CKD severa e l’anatomia coronarica favorevole per la rivascolarizzazione percutanea [2]. Si poneva quindi indicazione all’esecuzione di staged Protected PCI con il dispositivo di supporto al circolo Impella CP, una pompa micro-assiale intravascolare che viene posizionata per via retrograda in posizione trans-valvolare aortica che, aspirando il sangue dal ventricolo sinistro per espellerlo direttamente in aorta ascendente, permette l’unloading ventricolare offrendo un flusso continuo, non pulsatile, fino a 4 L/min. Tre giorni dopo la PCI primaria, il paziente viene quindi condotto nuovamente nel Laboratorio di Emodinamica per essere sottoposto alla procedura. Il device veniva impiantato per via percutanea arteriosa femorale sinistra, attraverso un introduttore di 14 Fr. Il Tronco Comune veniva quindi sottoposto a multiple predilatazioni e successivamente trattato con l’impianto di un DES con un ottimo risultato angiografico finale (Figura 4).

Figura 4 – Staged Protected PCI con Impella CP. A) Impella in posizione ed evidenza della lesione del Tronco Comune non protetto. B) PCI con impianto di un DES al tratto medio-distale del Tronco Comune con ottimo risultato angiografico finale.

Al termine della procedura il paziente veniva condotto nuovamente in UTIC dove l’ecocolorDoppler cardiaco transtoracico evidenziava un corretto posizionamento dell’Impella con l’aliasing visibile oltre il piano valvolare aortico, in aorta ascendente e con il marker dell’inlet localizzato 4 cm al di sotto dell’anulus aortico (Figura 5).

Figura 5 – EcocolorDoppler cardiaco transtoracico per il controllo del corretto posizionamento dell’Impella CP. A) Proiezione parasternale asse lungo. B) Proiezione apicale: aliasing.

Due giorni dopo la procedura si intraprendeva lo svezzamento del paziente dal device che veniva quindi rimosso con l’utilizzo del sistema di chiusura Manta® 14 Fr. Il resto della degenza trascorreva senza complicanze ed il paziente veniva dimesso in buone condizioni cliniche ed in stabilità emodinamica in decima giornata dalla Protected PCI.

DISCUSSIONE
Nei pazienti candidati a PCI ad alto rischio, l’Impella fornisce un supporto emodinamico e protegge dall’ischemia miocardica. Infatti, determinando un unloading diretto del ventricolo sinistro, consente un’immediata riduzione del lavoro miocardico e della richiesta di ossigeno. Simultaneamente il flusso coronarico aumenta con un miglioramento della perfusione sistemica attraverso un aumento della pressione arteriosa media e una riduzione della pressione tele-diastolica del ventricolo sinistro. L’Impella è inoltre un device dipendente dal precarico, ma non ritmo dipendente e garantisce un’azione continua, non pulsatile determinando quindi una gittata cardiaca e una pressione arteriosa media stabili. Grazie a queste caratteristiche, permette il mantenimento della stabilità emodinamica garantendo il tempo necessario per raggiungere la rivascolarizzazione completa. Solitamente andrebbe considerata ad alto rischio una PCI in presenza di specifici criteri clinici (disfunzione ventricolare sinistra con EF ≤35%, instabilità emodinamica, diabete mellito, ACS, CKD, pregressa chirurgia cardiaca) ed anatomici (CAD multivasale, malattia di Tronco Comune non protetto, malattia di biforcazione, presenza di CTO, lesioni severamente calcifiche) [3].
L’impiego dell’Impella nelle PCI ad alto rischio è stato valutato nella serie di studi PROTECT. Il PROTECT I ha evidenziato che il dispositivo Impella 2.5 è sicuro, facile da impiantare e garantisce un eccellente supporto emodinamico durante PCI ad alto rischio [4]. Successivamente il PROTECT II trial, uno studio prospettico multicentrico randomizzato ha confrontato IABP e Impella 2.5 nel setting di PCI elettiva ad alto rischio. Nel follow-up a 90 giorni, l’Impella è risultato associato ad una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (MACEs, Major Adverse Cardiovascular Events) rispetto all’IABP (p=0.023) con una riduzione del rischio relativo pari al 22% [5]. Infine, il successivo PROTECT III trial ha evidenziato una riduzione dei MACEs a 90 giorni con Protected PCI con Impella (2.5 and CP), comparato con i pazienti sottoposti a Protected PCI con Impella 2.5 arruolati nello studio PROTECT II [6]. Per quanto riguarda le raccomandazioni delle linee guida, un consensus document Europeo congiunto EAPCI/ACVC sull’impiego dei pVADs enuncia che l’impiego delle pompe micro-assiali, come l’Impella CP, potrebbe essere considerato in pazienti altamente selezionati candidati a PCI ad alto rischio secondo criteri clinici ed anatomici in caso di accessi femorali adeguati (diametro dell’arteria femorale comune >6 mm, in assenza di severe tortuosità) [7]. Una simile raccomandazione viene fornita dalle linee guida Americane ACC/AHA/SCAI riguardo la rivascolarizzazione miocardica (Classe IIb, livello di evidenza C) [8].

CONCLUSIONE
Le pompe micro-assiali (come l’Impella CP) rappresentano degli eccellenti devices per supportare le procedure di PCI ad alto rischio. Questi dispositivi garantiscono un supporto emodinamico durante la procedura, prevengono episodi di ipoperfusione e consentono un tempo sufficiente per raggiungere la rivascolarizzazione miocardica completa. Il PROTECT IV trial, attualmente in fase di arruolamento, fornirà probabilmente l’evidenza necessaria per ottenere in futuro una raccomandazione di Classe I nelle linee guida per l’impiego dell’Impella nelle PCI ad alto rischio.

BIBLIOGRAFIA

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[3] Leick J, Werner N, Mangner N, Panoulas V, Aurigemma C. Optimized patient selection in high-risk protected percutaneous coronary intervention. Eur Heart J Suppl. 2022 Dec 8;24(Suppl J):J4-J10.
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[8] Lawton JS, Tamis-Holland JE, Bangalore S, Bates ER, Beckie TM, Bischoff JM, et al. 2021 ACC/AHA/SCAI guideline for coronary artery revascularization: a report of the American College of Cardiology/American Heart Association Joint Committee on clinical practice guidelines. Circulation 2022;145:e18–e114.

Un singolare caso di severa disfunzione ventricolare sinistra: “Breaking Bad” alla milanese

Donisi Luca 1,2, Guareschi Alessandro 1,2, Calcagnino Margherita 2, Gherbesi Elisa 2, Garascia Andrea3, Faggiano Andrea 1,2, Vicenzi Marco 1,2, Carugo Stefano 1,2

1 Department of Clinical Sciences and Community Health, University of Milano, Italy
2 Department of Cardio-Thoracic-Vascular Diseases, Foundation IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Italy
3 “De Gasperis” Cardio Center, Niguarda Hospital, ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Piazza Ospedale Maggiore, 3, 20162 Milan, Italy

ABSTRACT
In un uomo di 39 anni di origini filippine e un’anamnesi dimostratasi successivamente incompleta con nuovo riscontro di severa cardiopatia ipocinetica dilatativa veniva indagata l’eziologia mediante l’esecuzione di risonanza magnetica cardiaca, PET-TC, angio-TC coronarica, angiografia coronarica e biopsia endomiocardica con riscontro di verosimile methamphetamine-associated cardiomyopathy in overlap con un quadro di coronaropatia trivasale critica.

CASO CLINICO
Il protagonista del caso clinico è un uomo di 39 anni di origini filippine che si presentava in Pronto Soccorso per un primo riscontro di dispnea ed edemizzazione declive da circa una settimana. Dall’anamnesi raccolta si evinceva la presenza di plurimi fattori di rischio cardiovascolare: diabete mellito di tipo 2, storia pregressa di abuso alcolico (5 UI/die fino a due anni prima), steatosi epatica e fumo attivo.
Il primo elettrocardiogramma non mostrava significative alterazioni patologiche, se non un lieve sotto-livellamento nelle derivazioni infero-laterali.
Gli esami del sangue mostravano uno stabile movimento enzimatico (Troponine T 128>78>115 ng/dl), un profilo infiammatorio fluttuante senza richiamo d’organo e una funzionalità epatica alterata. All’RX del torace si evidenziava un aumento dell’ombra cardiaca con aumento della trama vascolare.
L’ecoscopia cardiaca eseguita in PS evidenziava un ventricolo sinistro dilatato (volume telediastolico VTD: 160 ml), con spessori parietali aumentati (setto/parete posteriore 13/13 mm) ed ipocinesia diffusa condizionante una severa disfunzione biventricolare (frazione d’eiezione FE 20%, Frazione d’accorciamento 20%).

Figura 1 Ecocardiogramma di ingresso

Veniva quindi posta diagnosi di scompenso cardiaco a frazione d’eiezione ridotta (HFrEF) di nuovo riscontro con indicazione a ricovero in terapia intensiva cardiologica. Durante il monitoraggio i parametri vitali si mantenevano stabili con un quadro di congestione venosa senza ipoperfusione periferica. Veniva quindi impostata terapia diuretica endovenosa con rapida risoluzione degli edemi declivi e della dispnea. A paziente stabilizzato, veniva impostata la terapia specifica per l’HFrEF.
Data la giovane età e l’assenza di sintomatologia anginosa si decideva di eseguire in prima istanza la risonanza magnetica cardiaca che mostrava dimensioni aumentate del ventricolo sinistro (VTDi 112.8 ml/mq) e normali del ventricolo destro, una funzione sistolica significativamente ridotta (FE 17%), massa miocardica aumentata in presenza di diffusa ipertrofia. Inoltre, si evidenziava sia diffusa iperintensità di segnale di parete nelle sequenze STIR, con accumulo di late gadolinium enhancement (LGE) dopo somministrazione di mezzo di contrasto a carico del setto, della parete anteriore ed inferiore con aspetto patchy diffuso intramiocardico e subepicardico di significato non ischemico. Si confermava quindi un quadro di grave cardiopatia dilatativa ipocinetica con evidenza di fibrosi a distribuzione tipica di patologie infiammatorie quali la miocardite e/o la sarcoidosi.

Figura 2 Quadro di risonanza magnetica cardiaca

Nonostante l’assenza di aritmie, in considerazione dell’età inferiore a 40 anni e il dosaggio dell’enzima ACE positivo (81.5 U/L) si decideva, per escludere la sarcoidosi, di eseguire una PET/TC con 18- FDG la quale mostrava una diffusa ipercaptazione miocardica sinistra e moderata destra in assenza di lesioni ipercaptanti in sede extra-cardiaca. Questo aspetto era compatibile con il quadro di scompenso acuto, mentre la sarcoidosi è solitamente caratterizzata da un accumulo patchy con noduli ipercaptanti extracardiaci, per cui veniva esclusa.

Figura 3 Quadro di PET/TC

Dunque, i segni clinici, elettrocardiografici e di imaging suggerivano il sospetto di miocardite acuta.  Si decideva, a completamento, nonostante la bassa probabilità pre-test di cardiopatia ischemica di eseguire una angio-TC coronarica con riscontro di coronaropatia trivasale coinvolgente il tronco comune. La severità delle lesioni veniva confermata dall’angiografia coronarica.

Figura 4 Quadro angiografico coronarico

Dopo discussione in Heart Team veniva posta indicazione a bypass aortocoronarico, nonostante il quadro di coronaropatia difficilmente giustificasse il riscontro di una disfunzione ventricolare sinistra di tale entità, oltretutto caratterizzato da un pattern non-ischemico alla RM cardiaca. Pertanto, si decideva, prima di procedere a chirurgia, di eseguire una biopsia endomiocardica al fine di escludere una concomitante miocardite acuta. Il reperto anatomopatologico era privo di infiltrati infiammatori ma mostrava lieve fibrosi interstiziale senza alterazioni morfologiche dei cardiomiociti. Veniva quindi escluso anche il sospetto di miocardite acuta.

A fronte di tali riscontri di non univoca interpretazione, si decideva di effettuare una più scrupolosa anamnesi con l’aiuto di un collega psichiatria. Dal colloquio emergeva che il paziente avesse una lunga storia di abuso di shaboo, iniziata a 21 anni e sospesa solo 2 mesi prima. Lo shaboo è una droga a base di metamfetamina e caffeina particolarmente diffusa nella comunità filippina, che ha evidenziato in letteratura molteplici ripercussioni sul sistema cardiovascolare, tra cui una tossicità diretta sui miocardiociti, aumento dello stress ossidativo, disfunzione mitocondriale, vasoconstrizone polmonare e coronarica, incremento del processo aterosclerotico. L’uso cronico di queste sostanze può portare ad un quadro di severa disfunzione ventricolare che viene riconosciuto come methamphetamine-associated cardiomyopathy 1, 2, quadro compatibile con la storia del nostro paziente in cui era presente anche la cardiopatia ischemica in overlap. Il paziente veniva comunque sottoposto a rivascolarizzazione miocardica mediante duplice bypass aorto-coronarico (mammaria sinistra su interventicolare anteriore e safena su primo marginale). Dopo tre settimane di riabilitazione post-cardiochirurgia si assisteva ad un netto miglioramento del quadro ecocardiografico con normalizzazione del volume ventricolare sinistro (VTDi 80ml/mq) e solo lieve riduzione della FE (45%). A breve verrà eseguita RMN cardiaca di controllo per valutare l’eventuale miglioramento del burden di fibrosi.

CONCLUSIONI
La cardiomiopatia associata alla metanfetamina (MACM) è una condizione clinica caratterizzata da disfunzione del ventricolo sinistro e alterazioni strutturali del miocardio attribuite all’uso cronico di metanfetamine, sempre più diffuso a livello mondiale. Nell’iter diagnostico è importante soffermarsi approfonditamente sull’anamnesi perché spesso questa categoria di pazienti nasconde l’abuso di stupefacenti allo stesso staff medico che la raccoglie. Riconoscere la tossicodipendenza è fondamentale per accelerare l’iter diagnostico e impostare quanto prima la terapia adeguata per la disfunzione cardiaca sottostante. Cessare l’abuso della sostanza stupefacente rimane uno dei principali fattori prognostici in grado di favorire la reversibilità di questo tipo di cardiomiopatia3.

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