Figura 1

Durata della doppia terapia antipiastrinica e tipologia della successiva monoterapia in pazienti sottoposti ad impianto di stent medicato: una network meta-analisi.

Benenati S1, Crimi G2, Canale C1, Pescetelli F1, De Marzo V1, Vergallo R3, Galli M, Della Bona R, Canepa M1,2, Ameri P1,2, Crea F3,4, Porto I1,2

  1. Dipartimento di Medicina Interna e Specialità Mediche (DIMI), Università di Genova, Largo R. Benzi 15, 16132 Genova, Italy.
  1. Unità di Malattie Cardiovascolari, IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, Genova, Italy – IRCCS Cardiovascular Network.
  2. Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, Italy.
  3. Università Cattolica del Sacro Cuore, Italy.

La doppia terapia antipiastrinica (dual antiplatelet therapy – DAPT), intesa come combinazione di aspirina e un bloccante del recettore P2Y12, rappresenta il gold standard per la prevenzione secondaria degli eventi aterotrombotici nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica percutanea (percutaneous coronary intervention – PCI) con impianto di stent medicato. Dal momento che la somministrazione di farmaci antipiastrinici predispone al sanguinamento, la strategia antipiastrinica ottimale dopo PCI andrebbe tuttavia stabilita non solo in relazione al rischio ischemico, ma anche a quello emorragico. I trial randomizzati controllati (randomized controlled trials – RCT) pubblicati fino ad oggi hanno testato due principali strategie: il semplice accorciamento del periodo di associazione di aspirina e P2Y12-inibitore ovvero l’impiego di monoterapie con P2Y12-inibitore dopo DAPT abbreviata. Nonostante le numerose evidenze accumulate negli anni, questa materia rimane ad oggi oggetto di acceso dibattito. Il gruppo dell’Università di Genova ha realizzato un’analisi comparativa delle diverse strategie antipiastriniche testate dopo PCI con impianto di stent medicato.

Il progetto ha incluso 21 RCT precedentemente pubblicati, per un totale di 110059 pazienti-anno. I risultati sono stati analizzati con la metodica della network meta-analysis, che ha consentito di effettuare un confronto di tutte le strategie di trattamento, anche quando queste non fossero mai state direttamente confrontate tra loro, sulla base di un solido approccio statistico. In particolare, l’analisi primaria ha confrontato una durata molto breve (≤3 mesi), breve (6 mesi), standard (12 mesi) ed estesa (>12 mesi) di DAPT. Gli endpoint primari erano un composito di morte cardiaca, infarto miocardico non fatale e trombosi di stent (endpoint di efficacia) e il sanguinamento maggiore (endpoint di sicurezza). Sono state condotte numerose sotto-analisi volte a testare la solidità dei risultati ottenuti ed esplorare le possibili fonti di eterogeneità.

I risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista European Heart Journal – Cardiovascular Pharmacotherapy. È stato dimostrato come la DAPT estesa si associ a minor incidenza di infarto miocardico non fatale e trombosi di stent rispetto alle altre strategie. Al contrario, la DAPT breve (6 mesi) riduce il sanguinamento minore, mentre solo la DAPT molto breve (≤3 mesi) si associa ad una riduzione dei sanguinamenti maggiori. In una sotto-analisi, i trattamenti sono stati ulteriormente stratificati tenendo conto delle monoterapie somministrate dopo DAPT molto breve. Si è potuto così dimostrare come la DAPT molto breve seguita da monoterapia con P2Y12-inibitore fosse la strategia associata al miglior compromesso tra rischio di infarto miocardico e rischio di sanguinamento maggiore.

Lo studio mette in discussione il concetto di terapia antipiastrinica “standardizzata” per tutti i pazienti sottoposti ad impianto di stent coronarico, evidenziando come la personalizzazione del trattamento sulla base del rischio ischemico ed emorragico del singolo individuo sia essenziale per garantire il migliore outcome del paziente. Secondo i risultati di questo studio, l’accorciamento della DAPT (fino addirittura ad 1 o 3 mesi) non espone, in casi selezionati, ad un incremento di rischio ischemico, pur salvaguardando il paziente da quello emorragico. Inoltre, molto promettente sembra essere il ruolo delle monoterapia con P2Y12-inibitori.

Abstract

La migliore strategia antipiastrinica dopo angioplastica coronarica percutanea con impianto di stent rimane dibattuta. Abbiamo eseguito una network meta-analisi di 21 trial randomizzati controllati (110059 pazienti-anno) che confrontavano strategie antipiastriniche diverse in termini di durata e monoterapie successive. L’impiego di doppia terapia antiaggregante estesa (>12 mesi) si associa ad una riduzione di infarto miocardico e trombosi di stent. Riducendo la durata a 6 mesi, si diminuisce la frequenza di sanguinamenti minori, mentre una doppia antiaggregazione di 1-3 mesi minimizza il rischio anche di sanguinamenti maggiori. L’impiego di una doppia antiaggregazione abbreviata seguita da monoterapia con inibitori di P2Y12 sembra essere la strategia di scelta per assicurare un compromesso tra rischio ischemico ed emorragico.

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